1. Il leghismo non è mai centrato quasi nulla con il venetismo

“Benvenuti in Italia”. Ricordo perfettamente queste parole. Fine degli anni ’90. Stadio Romeo Menti. A gridarle praticamente tutti, contro le tifoserie delle squadre del Sud.

Un’epoca buia. Di odio anti-meridionale viscerale. Di cattiverie gratuite e di razzismo manifesto e gridato. Dalle scuole elementari a tutti gli uffici pubblici e privati.

Erano gli anni della Lega di Bossi. Capace di raccogliere il consenso di più di un terzo dei veneti con un programma semplice: l’indipendenza della Padania.

Infiniti articoli a commentare la rabbia del Nord. Libri. Trasmissioni tv. Reportage. Da una parte chi raccontava le ragioni economiche. Troppe tasse. Troppo statalismo. Troppo assistenzialismo. E via di riflessioni mirabolanti. Dall’altra chi trovava riflessioni più profonde. La storia degli stati regionali dell’età moderna. O, addirittura, il modello comunale. La mancata modernizzazione del Sud. Più semplicemente, l’identità. Padana. O, ancor di più, veneta. Meglio, vicentina, trevigiana, veronese.

Ma tutti questi commentatori non ascoltavano il ruggito degli stadi veneti. Che non gridavano “Benvenuti in Padania”. Urlavano “Benvenuti in Italia”. Vi immaginate il Camp Nou che grida “Bienvenidos a España”? Sinceramente, io no.

Quello su cui la Lega ha costruito sempre il suo consenso non è mai stato, se non per una parte minoritaria del proprio elettorato e della propria militanza, un progetto identitario regionale o macro-regionale. La Lega ha sempre preso i voti sull’esaltazione del localismo. È per questa ragione che Salvini ha potuto abbastanza velocemente trasfromare la Lega da partito nazionalista “padano” a partito nazionalista “italiano”.

2. Che cos’è sempre stata la Lega

L’investimento ideologico leghista, fin da subito e con sfumature legate allo spirito dei diversi decenni interessati, è quello tipico di un partito nazionalista. Un partito che desidera esaltare l’identità locale, facendo emergere quanto questa sia l’unica possibilità di cementare la comunità e quanto sia fondamentale combattere contro i tanti “invasori” di quella comunità. Il localismo nazionalista si sposa, inoltre, con la ricerca di un leader forte che possa difendere queste identità costantemente allarmate da mutamenti esogeni ed endogeni.

3. La mancanza di una visione venetista maggioritaria

L’evoluzione della Lega da “padana” a “italiana” è ciò che meglio dimostra il vero elemento che intendo sottolineare: la totale mancanza di un’elaborazione ideologica maggioritaria sull’identità veneta, tanto a destra quanto a sinistra.

Associazioni, partiti e movimenti venetisti ce ne sono stati e ce ne sono molti. Ma non sono riusciti a costruire una narrazione veramente maggioritaria per tre ragioni fondamentali.

a – L’alibi leghista. La prima è sempre stata l’alibi leghista. Un partito che teoricamente faceva da sindacato del nord rendeva impossibile la costruzione di percorsi politici autonomi finalizzati alla definizione di un quadro ideologico venetista.

b – L’odio della sinistra italiana nei confronti delle identità regionali, figlio della fase tarda del PCI, obbligato dal suo peculiare ruolo di essere un partito comunista egemone della sinistra a Occidente della cortina di ferro a dimostrare un nazionalismo italiano ben più marcato di quello di qualsiasi altro partito della prima repubblica (ad esclusione del MSI). Quest’odio ha reso impossibile una narrazione venetista di sinistra, a differenza ad esempio, in Spagna, della caratterizzazione federalista del PSOE e dell’esistenza di partiti autonomisti di sinistra nelle  diverse Comunità Autonome spagnole.

c – La mancanza di una borghesia venetista. La borghesia liberale veneta è sempre stata assolutamente prona allo Stato unitario. Non esiste, per tutto l’800 e per gran parte del ‘900, una vera costruzione ideologica nazionalista veneta da parte delle elite, rendendo quindi totalmente senza radici e quadri qualsiasi movimento popolare.

4. La necessità di una narrazione locale

Oggi viviamo un’epoca bizzarra. In cui la globalizzazione economica, a prescindere dai suoi supposti oppositori di destra e di sinistra, prosegue a spron battuto in tutto il mondo. E le sue conseguenze negative (ambientali, sociali, economiche) hanno reali possibilità di essere gestite solo con una maggiore collegialità internazionale.
Questo, però, è impossibile da gestire senza un consenso locale. E l’unico modo per riuscire a sostenere la globalizzazione economica e tutti i suoi enormi vantaggi da un lato e a gestirne le conseguenze negative dall’altro è trovare un modo sensato e adeguato di dare un senso alle comunità locali.

È su questo spazio di senso che, a mio parere, i progressisti veneti dovranno provare a costruirsi un ruolo, se davvero vogliono dare un senso alla loro esistenza nella terra di San Marco.

Per farlo dovranno prima di tutto lavorare sugli elementi profondi che legano lo sviluppo locale e l’identità storica veneta con l’idea di una società aperta al mondo e alle sue molteplici differenze. Dall’altro dovranno raccontare come le sfide globali – con un reale impatto locale – potranno essere risolte solo con un modello capace di parlare e ascoltare fuori e non chiudendosi in una bizzarra autarchia che è folle sia per ragioni economiche (il turismo, l’export della manifattura, la non autosufficienza agricola sono i 3 pilastri che riassumono perché sia folle) che per ragioni di prospettiva (qualcuno pensa davvero che la rivoluzione tecnologica potrà essere fermata da qualche muro o da qualche pensionamento anticipato?).

Speriamo che qualcuno si ponga il tema, senza pensare solo a legarsi al nuovo leader nazionale che garantisca un treno per Roma.